Musicoterapia Veneto

Ascoltare ed essere ascoltati

Simona Colpani

Rimpicciolire il testoIngrandire il testo

Ogni tanto io e mio marito ci troviamo a sorridere per la quantità di volte che i miei figli riescono a dire mamma nel tempo di una cena. Capita che partano con “mamma….” E al mio “Dimmi” la risposta sia: “Non lo so, non mi ricordo più”.

Sono tante le volte in cui ci viene richiesto di ascoltare, così come sono tante le volte in cui chiediamo ai nostri figli di ascoltarci, di ascoltare le insegnanti. In realtà quello che chiediamo, e che ci viene chiesto, è di essere sempre in posizione di ascolto. Questa richiesta provoca emozioni diverse, da chi si annulla mettendosi completamente al servizio del figlio a chi presume di sapere di cosa possa avere bisogno preoccupandosi di soddisfare ogni suo bisogno senza verificare che sia tale. Due estremi che raccontano, come l’infinità di altre diverse posizioni, una sola cosa: che ascoltare è difficile. Ascoltare richiede uno spazio, un tempo, un’attesa perchè è un atto di amore.

Alfred Kallir, studiando gli alfabeti antichi e moderni e mettendoli a confronto, ha evidenziato come ogni lettera, in tutti gli alfabeti, sia radicata in un’esperienza. Ogni lettera, per la sua forma e per il suo suono, ha una storia, e questa storia è la vita. Ascoltare inizia con la A come Amore, come l’Am del bambino che si fa imboccare. Un bambino non si fa imboccare da tutti, né tanto meno un adulto. L’essere imboccati è un gesto intimo, che riguarda la sfera privata.
Ascoltare non è molto diverso dal lasciarsi imboccare. Occorre essere disposti a cambiare, a crescere, e nulla ci può cambiare tanto quanto i figli!

Per ascoltare sono necessarie alcune premesse. La prima è che qualcuno nella vita ci abbia ascoltato veramente. La seconda è che ci sia silenzio. La terza è che ci sia spazio, spazio fisico e mentale per l’ascolto. La quarta è che ci sia un tempo e che questo sia il tempo del presente.

Sembra un’affermazione inutile, eppure tante volte, senza rendercene conto, non siamo nel presente: ascoltiamo chi abbiamo di fronte avendo ben presente le nostre emozioni e storie del passato o ciò che chi abbiamo di fronte ha fatto nel passato. La conoscenza a volte diventa una gabbia che non consente l’ascolto dell’oggi, rendendo di fatto difficile il cambiamento, l’avvento del futuro.

Paradossalmente, uno degli ostacoli maggiori all’ascolto è proprio la preoccupazione. Ci sono genitori che si preoccupano così tanto per i figli, cercando di prevenire ogni loro possibile bisogno, da soffocare quasi i figli. Essere pre–occupati significa occuparsi di una cosa prima che questa accada. Se da un lato ciò ci consente di non farci trovare impreparati, dall’altro lato rischia di farci trovare già “pieni” di ipotesi e soluzioni, quindi di non lasciare spazio all’ascolto di ciò che in quel momento accade.

È questa una delle situazioni più difficili da modificare o delle quali accorgersi, proprio perché l’adulto è molto attento ed in ascolto. Lo è così tanto che i suoi pensieri e decisioni riempiono tutto lo spazio della relazione. La preoccupazione mette ansia, rende troppo tesi e se si è tesi non si riesce ad ascoltare.

Parlare, e ancora più scrivere di ascolto, è difficile perché è un tema molto complesso. La parola ascolto è un po’ come la parola amico. Ci sono tanti tipi di amici: quelli che incontro per strada o che condividono con me una passione, quelli con cui gioco, e quelle rare persone a cui mi sento di poter dire di tutto e a cui permetto di dirmi cose che vorrei non dover ascoltare. Lo stesso vale per l’ascolto: posso ascoltare il compagno che mi chiede una matita, posso ascoltare quello che mi chiede di giocare con lui o che ha bisogno di un aiuto, posso ascoltare la richiesta di un figlio che mi chiede di poter andare da un amico o di frequentare uno sport, o un certo tipo di scuola, …. E poi c’è l’ascolto dell’intimo. Questo tipo di ascolto è profondo, tanto da essere un Dono reciproco. E’ tale quando è un’esperienza importante sia per chi ascolta che per chi è ascoltato.
Sono eventi rari, anche perché poter ascoltare così una persona richiede che dall’altra parte ci sia una persona disposta a farsi ascoltare, quindi a voler raccontare di sé.

Noi a chi raccontiamo i nostri sentimenti e bisogni più forti? Li raccontiamo? Sappiamo quali sono o lo scorrere dei giorni ci porta a fare ciò che dobbiamo, con responsabilità, perdendo via via, con il tempo e l’abitudine, di avere presente perché facciamo alcune scelte e non altre? Non parlo delle grandi scelte della vita, come quella di sposare una persona, o scegliere una scuola, … Mi riferisco anche a tutte le piccole azioni del quotidiano: comprare la verdura già lavata nelle buste o già cotta oppure cucinare noi, preparare la tavola e chiamare i figli quando è tutto pronto o fare apparecchiare a loro, ma anche le scelte (quando è possibile scegliere!) relative al lavoro. Agiamo così perché ci abbiamo pensato o perché altri accanto a noi o prima di noi hanno fatto così?

Non fa parte della nostra cultura l’educazione all’ascolto di sé, ed è uno dei motivi per cui è difficile ascoltare gli altri. La nostra cultura ci ha insegnato ad obbedire (obbedire inteso come sottomissione al volere di un altro). Prima si obbediva ai genitori. Una volta divenuti grandi, il desiderio di essere ascoltati si è tradotto in un ascoltare i figli …. obbedendo a loro!
Sembra un po’ il gioco del gatto che si morde la coda: se non ho mai avuto esperienza in cui sono stato ascoltato non so come si ascolta, se non so come si ascolta non ascolto; se non ascolto, chi ho di fronte se ne accorge e non mi parlerà mai dei suoi pensieri più profondi.

Poter parlare dei miei sentimenti e dei miei pensieri profondi richiede che io ne sia consapevole, ma si diventa consapevoli. Un bambino piccolo che piange per la fame piange perché sta male, non perché ha fame. Tanto è vero che piange anche perché ha mal di pancia, perché gli dà fastidio il pannolino, perché vuole uscire di casa, … A forza di essere ascoltato diventa consapevole di cosa gli genera fastidio o dolore. Molto più complesso per noi genitori è capire quali emozioni lo turbano, lo fanno disperare, gli danno gioia. Riuscire a dare un nome alle esperienze emotive è consentire al bambino, ma anche all’adolescente, di conoscerle prima e riconoscerle in seguito. Se non conosco ciò che mi sta capitando, come faccio a raccontarlo? Come può ascoltarmi chi ho accanto e mi ama se io non racconto? Ma come faccio io a raccontare se non so cosa è che mi sta succedendo? Se non ho parole che possano dire cosa mi capita?

Ascoltare e raccontare sono eventi che si imparano solo se vengono entrambi sperimentati.

Ascoltare è un essere al servizio di un’altra persona, ma è al tempo stesso un onore perché significa che siamo stati scelti come persona a cui poter raccontare. Perché io possa continuare ad essere scelto la persona che si confida con me ha bisogno che io rispetti ciò che mi viene confidato. Rispettare significa che ascolto senza giudicare il valore di ciò che ascolto. Il rischio è che io rida di un bambino di tre anni che mi racconta di essere innamorato della compagna della scuola materna e mi metta a raccontarlo a parenti e amici come se fosse una cosa divertente per alcuni o di cui andare orgogliosi per altri… Perché, dopo questa esperienza, a tredici anni dovrebbe raccontarmi del suo nuovo amore?

L’ascolto richiede rispetto. I greci parlavano di epoché, o sospensione del giudizio, ma anche di myein che vuole dire “chiudere le labbra”, che è la radice di mistero.
L’ascolto è questo: aprirsi al mistero dell’altro.

[ Pubblicato on-line il 21 giugno 2013 ]
Cookies - Sito realizzato con SPIP da HCE web design