Musicoterapia Veneto

Educazione e musicoterapia

Mario Zattin e Mariateresa Marcella Turrici

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Il processo cognitivo dall’ascolto della musica al fare musica

Una frase che è rimasta impressa nella mia memoria quando ho chiesto informazioni ad un insegnante di musicoterapia riguardo ad un corso molto famoso in Italia è questa: “poi c’è quell’altra insegnante ma non fa musicoterapia, lei insegna il pianoforte ai disabili!”

Sinteticamente l’assunto è questo: ad un disabile conoscere la musica non serve a niente! La musicoterapia non si deve interessare all’aspetto educativo. Per fare musicoterapia non serve saper suonare uno strumento, anzi è di ostacolo.

Molti anni sono passati ma ancora adesso questa insegnante viene etichettata come una “maestrina” in accezione negativa. Forse queste persone non sanno che la parola “Maestro” ha anche significato di “Dotto, esperto in una scienza, in un’arte”.
Dizionario etimologico online – www.etimo.it

Come è possibile ancora adesso pensare che la musica e l’educazione non c’entrino con la musicoterapia? È questione di ignoranza oppure di pregiudizio? Dal dizionario etimologico online – www.etimo.it – questa è la definizione di pregiudizio: “Pregiudizio dal latino PRAE JUDÌCIUM giudizio antecedente, anticipato; falsa opinione precedente dal giudicare prima di conoscere bene la cosa; vale anche Pena o Condanna patita al seguito di precedente giudizio”.

Inoltre, nell’articolo “How Arts Training Improves Attention and Cognition By Michael I. Posner, Ph.D. and Brenda Patoine – September 14, 2009” si legge: “Come abbiamo visto, recenti studi hanno trasceso il paradigma fallito di esporre semplicemente le persone alle arti e ora si concentrano sugli effetti della formazione artistica che duri mesi e anni.”

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Da recenti ricerche è emerso che l’apprendimento musicale non coinvolge solo le aree cerebrali preposte all’udito, al linguaggio (apprendimento del canto) ed alla motricità fine (quando si impara a suonare uno strumento) ma influisce anche sulle funzioni cognitive connesse alla percezione spaziale, alla memoria e all’attenzione.
Da “Il Prisma” – Il sito di psicologia

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Gli studi fatti dalle neuroscienze ci dicono che fare musica cambia strutturalmente i circuiti cerebrali. Facciamo un esempio tratto dall’articolo “How Arts Training Improves Attention and Cognition”: “come si pratica un compito, la sua rete sottostante diventa più efficiente e le connessioni tra le aree cerebrali che svolgono i diversi aspetti del compito sempre più strettamente integrati. Questo processo è analogo a un’orchestra che suona una sinfonia. La musica che deriva dall’integrazione delle sezioni orchestrali è probabile che il suono sia più fluido la centesima volta che suonano un pezzo che la prima volta.”

È interessante leggere: in che modo impariamo nuovi concetti? Possiamo prevedere le difficoltà di apprendimento o del linguaggio nei bambini a partire dallo studio delle loro risposte elettroencefalografiche? Come progettare software interattivi che offrano un ausilio per quei bambini con problemi legati all’apprendimento della matematica? La musica può stimolare certe abilità cognitive di base trasferibili in altri domini di conoscenza?
(Il sapere educativo incontra le neuroscienze)

Potrebbe diventare possibile far compiere ai bambini in età prescolare, o forse già di pochi mesi, semplici esercizi che assicurino loro di arrivare alla scuola con adeguate abilità cognitive.
Se si dimostreranno efficaci, questi interventi potrebbero avere una forte influenza sulla didattica, riducendo in modo spettacolare l’incidenza di numerosi problemi di apprendimento.
Dalla rivista online “Le Scienze” – Come fare un bambino che impara di più

“Nel campo della riabilitazione queste scoperte si traducono nell’abbandono delle tecniche di stimolazione passiva e nel promuovere, al contrario, l’apprendimento attivo, l’esposizione e l’esperienza produttiva: la musica diventa quindi il mezzo attraverso cui il cervello ricrea nuove “forme”, attraverso, appunto, l’esercizio e l’apprendimento. È così che il cervello riesce a recuperare al meglio le abilità perse a seguito di traumi, patologie o deficit cognitivi. In questo senso la musica, da debole ausilio alla terapia, può invece oggi essere considerata un potente fattore di rieducazione cognitiva, motoria e del linguaggio, impiegata, oltre che nei disturbi neurologici, in tutti quei casi di afasia, disturbi dell’apprendimento e del linguaggio nei bambini.” _ (rivista “State of mind – Il giornale delle scienze psicologiche”)

Se questo è vero allora non è del tutto impensabile che, dove possibile, suonare uno strumento possa essere di aiuto anche a quei bambini, ma non solo, con patologie invalidanti come plurihandicap, autismo infantile, paralisi cerebrali infantili, problemi di apprendimento, problemi e/o disturbi del linguaggio, sindrome di Down, sindromi varie, sordità infantile ecc.

Ci sono però molti aspetti che devono essere approfonditi. In questi ultimi decenni c’è stata una proliferazione di metodi da somministrare per dare risposte immediate e con sicuro effetto. Non è cosi? Quante volte sono stati illusi i genitori con metodi miracolosi? Quante volte si è detto che bastava imparare ad usare un metodo per risolvere uno specifico problema? Tutto questo è etico?

Gli stralci qui sopra riportati, testimoniano con scientificità un sapere antico: divenire esecutori e non solo auditori dell’arte Musica promuove cambiamenti.
I risultati delle ricerche avvallano quindi che il fare è importante. Far sì che le persone, anche le persone con difficoltà, possano apprendere un’arte, è azione terapeutica, in quanto promuove un cambiamento.
Nonostante ciò, trovo che siamo di fronte ad una ennesima suddivisione per parti dell’uomo. Se tale modalità è utile o necessaria per focalizzare un dato di ricerca, troppo spesso ci dimentichiamo poi di riunire. L’uomo è uno e unico, vive ogni istante con tutto se stesso, anche se a volte lo dimentica, non se ne accorge, o non vuole saperlo.
Per questo penso che applicare metodi che derivano da conoscenze che non tengono in considerazione la globalità della persona sia un rischio. Il rischio è di vedere solo la difficoltà, ossia una parte della persona, dimenticandoci che nella persona c’è molto altro, che tutto vive, si evolve e muta in ogni attimo, pur rimanendo se stessa, così come un brano musicale che accenna un tema, lo varia lo amplia … cambia, eppure rimane lo stesso brano musicale.

[ Pubblicato on-line il 20 giugno 2013 ]
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