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Le nostre cifre: il sistema posizionale

Note sulla storia del concetto di numero

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Concludiamo la nostra carrellata sulla storia dell’uso dei numeri prendendo in considerazione le cifre che usiamo oggi tutti i giorni ed il metodo "posizionale" con il quale le combiniamo per scrivere i numeri.

In cosa consiste il metodo posizionale?
La sua principale idea, come suggerisce il nome, è che i simboli usati per le cifre non hanno un valore fisso: il loro valore dipende dalla loro posizione nella scrittura del numero.
Ad esempio, quando scriviamo il numero 2372, che cosa intendiamo? Quella scrittura sta per "due migliaia, tre centinaia, sette decine e due unità", e cioè per:
2.103 + 3.102 + 7.101+2.100 .
Il valore di ognuna delle cifre di 2372 dipende dalla sua posizione: il primo "2" vale duemila, mentre l’ultimo "2" vale solo due (esattamente come le conchiglie nelle cordicelle di diverso colore che abbiamo già visto in 2.3).
Notiamo che invece nelle scritture additive il valore dei simboli è fisso: ad esempio nella scrittura romana di 72 = LXXII , i due "X" valgono sempre "10", indipendentemente dalla posizione.
I primi esempi noti di una scrittura numerica che sia basata sui seguenti elementi:
-  notazione posizionale,
-  base dieci,
-  presenza dello zero,
-  nove simboli (cifre) oltre lo zero,
risalgono al V secolo d.C. (nel trattato indiano di cosmologia Lokavibhaga, 485 d.C.); questo metodo si diffuse piuttosto rapidamente in India e in Indocina, e già dal secolo successivo si trovano documenti sull’uso di tale cifre per eseguire i conti.


Fig.1.20: Un manoscritto indiano dell’epoca.

Nel 773, arriva a Bagdad un’ ambasciata indiana con un omaggio al califfo Mansour ed ai suoi saggi: il calcolo e le cifre. Quasi un secolo dopo, Muhammad ibn Musa al-Khuwârizmi (morto dopo l’846) scrisse il primo testo in lingua araba presentando la numerazione indiana posizionale nel IX secolo (dal suo nome deriva la parola "algoritmo").

Nel X secolo, il monaco francese Gerbert d’Aurillac apprende il nuovo metodo dai Mori di Spagna e inizia a introdurlo in occidente, specialmente dopo esser divenuto Papa nel 999, col nome di Silvestro II.
Le tracce di uso della numerazione indo-araba in Europa sono comunque scarse fino al XIII secolo, quando il matematico pisano Leonardo Fibonacci (che aveva viaggiato molto fra gli arabi) scrisse il Liber Abaci, che illustra il sistema posizionale ed il suo uso, e che fu il testo che più contribuì alla sua introduzione sistematica in Europa.


Fig.1.21: Leonardo Fibonacci e Silvestro II

La figura seguente mostra alcuni passi dell’evoluzione dei simboli per le cifre Indo- Arabe:


Fig.1.22: Evoluzione della scrittura delle cifre Ido-Arabe.

L’uso che facciamo tuttora delle cifre di origine indiana mostra la superiorità della scrittura posizionale rispetto a quella additiva romana (due ragioni fra tutte: la facilità nello scrivere numeri grandi e la possibilità di fare i conti usando le cifre scritte).
Comunque il suo uso efficiente richiede una novità: avere una cifra per il numero zero. In una notazione additiva, non c’è alcuna necessità di avere un simbolo per lo zero (aggiungere zero non serve a nulla), ma in una posizionale ogni cifra rappresenta il numero delle decine o centinaia o altre potenze del dieci (se la base è dieci), quindi se mancano le potenze di un certo ordine c’è bisogno di una cifra che rappresenti questa assenza:
Senza lo zero come vedremmo la differenza fra 123 e 1203 o 1023 ?
Questa ambiguità era presente nella scrittura cuneiforme babilonese, anche se in questa scrittura incontriamo in una fase successiva, verso il III secolo a.C., la prima versione scritta dello zero: un simbolo (simile a “<<”) che stava a significare l’assenza di cifre corrispondenti a quella posizione. E’ da notare che tale simbolo non era considerato un numero come gli altri, ma solo un “segnaposto” per indicare l’assenza di cifre in quella posizione. Questo è avvenuto anche per lo “zero” nella notazione indiana; all’inizio era un punto (o un circoletto) che indicava l’assenza di cifre in una data posizione, poi si è evoluto divenendo un cifra, “0”, come le altre ed un numero vero e proprio, che corrisponde alla “numerosità” dell’insieme vuoto.
La penetrazione del nuovo sistema in Europa fu abbastanza lenta e all’inizio osteggiata; ancora nel XIV secolo in vari luoghi l’uso delle "cifre arabe" era proibito, temendo che fosse troppo facile alterarle per eseguire truffe.
Anche i cinesi usavano una numerazione posizionale in base dieci, ed arrivarono ad usare lo zero (di derivazione indiana) verso l’ VIII secolo d.C. Qualche secolo dopo se ne trovano le tracce anche nella numerazione Maya. L’uso fattone però da babilonesi, cinesi e Maya fu limitato alla rappresentazione dei numeri, ed è invece nella sua introduzione da parte degli indiani, con un’efficiente notazione posizionale, che lo zero diventa parte di una scrittura che è anche strumento di calcolo.

Già nel VI secolo si trovano documenti dell’uso delle cifre per eseguire i conti; ad esempio con il procedimento di moltiplicazione detto "per quadrettatura" o "per gelosia"; vediamolo ad esempio col moltiplicare 547 per 6538.

Bisogna riportare le cifre ai lati di una tabella come illustrato, dopodiché si esegue in ogni casella (divisa in due da una linea diagonale) la moltiplicazione delle due cifre corrispondenti. A partire dal "6" in alto a destra, in ogni fascia diagonale si

troveranno, rispettivamente, le cifre del prodotto che rappresentano le unità, le decine, le centinaia, e così via. Sommando lungo tale fasce troveremo quindi il risultato cercato (3.576.286):

Questo metodo ci può sembrare molto lungo rispetto a quello da noi utilizzato oggi, ma allora era assolutamente più efficace di ogni altro calcolo “a mano”, e permetteva una velocità nella moltiplicazione che i metodi precedenti l’uso delle cifre arabe non potevano uguagliare.
Sotto, un esempio di moltiplicazione “per gelosia” (954x314):

Un aneddoto (riportato in [EC]), narra di un negoziante tedesco del XV secolo che, volendo che il figlio studiasse ciò che serviva per il commercio, chiese consiglio ad un professore di matematica di gran fama nella sua città: questo rispose che se il ragazzo doveva solo apprendere a sommare e sottrarre poteva studiare presso una scuola tedesca, mentre se la sua preparazione doveva arrivare alla moltiplicazione, si sarebbe dovuto rivolgere ad una scuola più specializzata in Italia. L’aneddoto non va probabilmente preso alla lettera, ma illustra come il saper "far di conto" fosse davvero una capacità di pochi, a quel tempo.
Ancora nel Rinascimento si svolgevano gare di calcolo fra "Abacisti" e "Algoristi" (che usavano il calcolo scritto, con le cifre arabe) e l’abaco fu usato ancora a lungo, fino al XVIII secolo.

[ Pubblicato on-line il 14 marzo 2016 ]
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