Musicoterapia Veneto

Dove abita la felicità?

Simona Colpani

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“Scomoda giace la testa che porta una corona”
W. Shakespeare – Enrico IV

Essere felice. Credo sia ciò che vogliamo tutti per i nostri figli, per noi. Eppure la gioia, il dolore, non abitano dove immaginiamo. Forse anche lì, ma spesso si nascondono nei luoghi più impensabili.

Ricordo una favola narratami quando ero piccola nella quale un re possedeva tutto, ma non era felice. Pensò che avrebbe risolto il suo problema indossando la camicia dell’uomo più felice del suo regno. Quando, dopo anni di ricerca, finalmente gli trovarono quell’uomo, scoprirono anche che era così povero da non possedere nessuna camicia. E così il re non poté avere la camicia dell’uomo più felice del suo regno, e neppure la sua felicità.

Un re pieno e ripieno di averi e di infelicità, un povero senza nulla e felice. Le famiglie che oggi non hanno nulla perché sono senza lavoro non credo siano felici. Non possedere nulla non significa automaticamente essere felici, anzi! Eppure ogni storia nasconde una verità.

La verità che la favola tenta di raccontare non credo, o non voglio credere, sia un inno al dolore e alla mancanza. Non credo si possano auspicare i “dolori innocenti” [1]. Anzi. L’impegno deve andare esattamente nella direzione opposta (altrimenti siamo in presenza di una patologia che si chiama masochismo!). Non condivido posizioni come quelle di un conoscente che un giorno mi disse che per le ferie aveva sempre portato i figli in montagna, e mai al mare, perché la vita è sofferenza e quindi dovevano abituarsi sin da piccoli ad affrontare la fatica. Non è questo. Che tristezza che la montagna, bella com’ è, anche con le sudate e le sfacchinate che può richiedere, sia percepita solo come fonte di “allenamento alla fatica ed al dolore”.

Purtroppo, però, non è possibile vivere senza mai incontrare l’esperienza del dolore, anche se cerchiamo di fare di tutto per facilitare la vita alle persone che amiamo. Non sono più felici i bambini che hanno una casa più grande, e neppure quelli con i genitori più premurosi. Non sono più felici i bambini che possiedono l’ultimo gioco di tendenza, e neppure quelli che possono vestirsi sempre secondo la moda. Non lo sono neppure quelli a cui S. Lucia ha portato tutto quello che avevano chiesto e magari anche qualcosa in più, tanto per avere garantito l’effetto stupore…. Quindi, cosa possiamo fare?

Ho già citato in passato il testo “Come proteggere i bambini” che esorta a:
- evitare loro dolori inutili;
- fare scoprire loro che hanno dentro di sé le risorse per far fronte alle difficoltà – cosa che possono scoprire solo se gli diamo la possibilità di sperimentare che possono superare le difficoltà senza essere sostituiti da noi, ovvero senza fare al loro posto senza, al contempo, lasciarli soli.

A queste due indicazioni credo vada aggiunta un’altra attenzione: occorre imparare a superare la mancanza vivendo il presente [2]. La frase può sembrare oscura, ma contiene indicazioni concrete per aiutare i bambini a far fronte al dolore offrendogli strategie per essere felici, andando oltre le fatiche che la vita prima o poi presenterà loro.

Il dolore è spesso legato alla percezione di una mancanza: mi manca la mamma, mi manca un’approvazione che attendevo, un riconoscimento, un’attenzione, una persona, un gioco che ho visto, una telefonata che non arriva…. Solo leggere il dolore come percezioni di mancanza di qualcosa può spiegare una frase, dire un epitaffio per intensità e pregnanza, che ho sentito pronunciare da una sorella di una persona con disabilità: “Noi, strangolati dal privilegio di non avere la sindrome”. Ha riassunto, con parole lucide, tante delle storie raccontate dai numerosi fratelli di persone con disabilità che hanno avuto modo di potersi raccontare. La presenza di una disabilità è così forte in una casa, ma anche quella di un lutto, da essere evidente la mancanza per chi non ce l’ha nella pelle. Così anche “il non avere” la sfortuna di avere una disabilità, o di aver vissuto un evento difficile, può diventare doloroso.

La mancanza nasce dal vivere rapportandosi con il passato (qualcosa che avevo e non ho più o non ho avuto) o con il futuro (qualcosa che vorrei arrivasse e non arriva). Vivere il presente, e ciò che ha da offrirmi, è il modo migliore per aiutare un bambino a superare il sentimento di dolore derivante dalla mancanza. Quante volte capita che un bambino pianga alla separazione con il genitore, ma gli bastano pochi minuti senza vederlo che si rasserena ed inizia a giocare. Un bambino sperimenta la mancanza anche quando deve smettere di giocare per andare a fare un’altra cosa… piange nel cambio di situazione, poi quando è in quella nuova non vorrebbe più cambiare neppure per tornare a fare quella precedente!

Per questo quando un bambino si ostina, esprimendo anche con il pianto la sua volontà, funziona distrarlo, ovvero offrirgli una nuova cosa -una nuova presenza- nella quale concentrarsi. Facendo molta attenzione a non confondere il distrarre il bambino con il mentirgli! Mai mentire ad un bambino: imparerà a non fidarsi di noi.

Noi genitori non possiamo dare ai nostri figli tutto ciò che desiderano perché non sentano la mancanza di ciò che immaginano, o anelano. Capita anche che si lasci ai figli, per fare un esempio, uno spazio che di diritto (e dovere [3]. appartiene ai genitori come il lettone perché “sente la mancanza di…, ha paura a stare da solo…”. Gli diamo ciò che chiedono perché è difficile stare di fronte al pianto di un figlio quando ci basta così poco per evitargli un dolore, una sofferenza. A volte siamo accondiscendenti perché è la soluzione più veloce, meno faticosa per noi.

Dando tutto, con il crescere dei figli possono verificarsi due conseguenze diverse. La prima è che ad un certo punto capiscono che non siamo onnipotenti e che ci sono cose alle quali non possiamo dare risposta. Quando accade – di solito con l’inizio della preadolescenza – iniziano a criticare ciò che facciamo su tutti i piani. Ragionano per bianco e nero: se il genitore non può tutto e non ha sempre ragione (come credevano), allora non può nulla e non ha mai ragione. La seconda è che non hanno sogni, oppure se li hanno li perdono poco dopo perché non hanno sviluppato la forza di conquistare poco per volta ciò che desiderano, gestendone la mancanza. Non saper vivere la sofferenza della mancanza significa non poter pensare in una dimensione temporale che includa il futuro. Ed è proprio ciò che vediamo oggi nei bambini: vogliono tutto e subito.

L’imperativo categorico, ovvero il compito a cui ogni genitore è chiamato e da cui nessuno di noi deve sottrarsi, per preparare i figli ad entrare nel mondo è insegnare al bambino a trasformare la mancanza in attesa, donandogli così il futuro.

Note

[1Qui si aprirebbe il bisogno di spiegare perché ci sono spazi che dobbiamo rivendicare non solo per diritto, ma anche per dovere. Accenno solo che i bambini imparano da ciò che facciamo e non da ciò che diciamo loro. Abbiamo il dovere di “rivendicare” alcuni luoghi e spazi come nostri perché in questo modo insegniamo, attraverso l’esempio, che ognuno ha a rivendicare un proprio spazio, quindi ad esistere.

[2Curioso che la divinità greca del gioco sia Pais, e riguardi “tutto ciò che non è affetto dalla necessità e dal tempo” (C. Sini, Le arti dinamiche, Filosofia e Pedagogia, p. 84).

[3L’espressione è il titolo di un libro di Vito Mancuso, ed. Mondadori.

[ Pubblicato on-line il 21 giugno 2013 ]
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